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Kula Shaker, Alcatraz, Milano, 25 febbraio 2016

27 febbraio 2016 by pdb in Concerti, Recensioni

www.kulashaker.co.uk

foto (c) Irene Carlotta Cicora

Non si esce vivi dagli anni ’90. I Kula Shaker sono tornati per ribadire il concetto. Lo hanno fatto all’Alcatraz di Milano che era gremito per quella che si può definire una festa di compleanno del rock psichedelico. Con i bagarini che ‘chiamano’ i biglietti da rivendere, e una coda ordinata di una trentina di fanatici pronti a scattare per guadagnare la prima fila, alle 19.35 si aprono le porte di una macchina del tempo che riconduce tutti indietro di 20 anni esatti, all’uscita del primo album: ‘K’. Che cosa hanno di magico? La capacità di infondere spirito di appartenenza, per cui dopo pochi minuti dall’ingresso si è già compagni d’avventure. Come pellegrini richiamati da un mantra, ciascuno rievoca aneddoti, racconta storie e genesi di una mania che pesca non solo da K (1996) ma anche da Peasants, pigs and astronauts (1999).

È un posto sicuro l’Alcatraz, dove gli appassionati di una band dimenticata troppo presto si sentono meno soli. Si sentono a casa. Il tour europeo iniziato il 12 febbraio per promuovere ‘K 2.0′, l’evoluzione del primo lavoro della band, è al giro di boa. Età media: 35/40 anni, i reduci dei ‘nineties’ insieme a tante nuove leve del rock di qualità. Dopo l’esibizione dei Black Casino and the Ghost, l’incenso ha iniziato ad avvolgere la sala. Un’ultima occhiata alla scaletta appiccicata ai piedi del microfono. E una agli strumenti, composti e impettiti sui loro piedistalli. Poi la ‘peacock Stratocuster’ è saltata verde scintillante al collo di Crispian Mills per una inconfondibile intro: la super classica Sound of drums. Il taglio di capelli, quello stesso caschetto biondo immutato dal 1996, è il catalizzatore di ogni sorriso. Ad ogni riff di chitarra corrisponde un salto, che scompiglia i capelli e i ricordi.

Venti canzoni per quasi due ore di musica: la maggior parte dai primissimi due album, nessuna estratta da Strangefolk (il terzo lavoro targato 2007), due da Pilgrim’s progress (‘Peter Pan’ e ‘Ophelia’, 2010) e un paio anche dal nuovo K2.0 (‘Infinite sun’ e  ’Mountain lifter’). L’empatia è una strana creatura. Ai colossi come Tattva e Govinda (rigorosamente in sanscrito) il pubblico è diventato una voce sola, altissima, stupendo quasi mister Mills. Kula Shaker sono abili nell’intervallare ballad innamorate come ‘Shower your love’ ai grossi carichi: ‘Hush’ e ‘Mystical machine gun’. C’è spazio anche per una chicca, una di quelle che in pochi riconoscono ma che lasciano il segno. È ’108 battles (of the mind)’. In sostanza un inno scatenato ad andare avanti, quando il gioco si fa duro, perché sì. Mills, Bevan, Winterhart e Broadbent si inchinano e salutano il pubblico in delirio proprio dopo la cover di Joe South e Deep Purple: in pratica, sul più bello. Ma vengono richiamati a gran voce, c’è spazio per tre encores: Hey Dude (‘questa ve la ricordate – spiega Mills – eravamo ragazzini quando l’abbiamo scritta’) poi Great Hosannah che è un preludio alla regina: la mistica Govinda. La canta tutta il pubblico, Mills ci mette la musica. Chissà come si dice Alcatraz in sanscrito, e chissà come si dice successo. O serenità. Nel concerto si è tradotto in due parole: Kula Shaker.

Ps: dal pubblico è arrivata anche una richiesta su un cartellone per ‘Hurricane season’, da ‘Strangefolk’. La risposta dal palco? ‘Maybe next time’. E noi aspettiamo. Ohm.

Irene Carlotta Cicora

 

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