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Mario Giammetti – Peter Gabriel: Not One Of Us

7 ottobre 2017 by Giulia Nuti in Special

Mario Giammetti è una delle firme principali del giornalismo rock in Italia e uno dei maggiori conoscitori in assoluto dell’universo dei Genesis. Anima e direttore responsabile della rivista Dusk, periodico imprescindibile per ogni appassionato dei Genesis in Italia, ormai oltre dieci anni fa Giammetti ha intrapreso una missione ambiziosa: “Genesis Files”, collana edita da Edizioni Segno, una serie di volumi che affrontano le carriere da solisti dei singoli membri dei Genesis. “Not One Of Us”, settimo e ultimo capitolo della serie, conclude la collezione in grande stile, raccontando la vita e il personaggio di Peter Gabriel. Dedichiamo a questo volume un approfondimento con intervista all’autore,  a cura di Francesco Gazzara e Giulia Nuti.

Il volume su Peter Gabriel sembra molto ricco iconograficamente, a parte gli inserti patinati compaiono spesso le foto in bianco e nero alternando il testo, quasi di più degli altri libri della serie. E’ una scelta voluta?

MG – Non è stato voluto, a livello quantitativo può darsi che ci sia qualche foto in più. A livello qualitativo invece, anche se con Gabriel ho avuto meno fotografie esclusive, ne ho potute usare molte scattate dal vivo dai fan. Sicuramente per quanto riguarda gli altri Genesis ho potuto usufruire di canali privilegiati, gli stessi uffici stampa erano meno indifferenti al mio progetto. Detto questo, tornando indietro al primo libro della serie, quello su Phil Collins, a distanza di anni certamente ritengo che, rispetto a “Not One Of Us”,  si possa migliorare anche quello dal punto di vista iconografico.

Come mai hai lasciato Peter Gabriel come ultimo capitolo della serie Genesis Files?

MG – Essenzialmente per due motivi. Il primo è che su Peter avevo già scritto un libro, “Il Trasformista” (pubblicato da Arcana nel 1999), e la serie Genesis Files, iniziata nel 2005, prevedeva all’inizio due libri all’anno. Un’utopia sicuramente, perché poi di anni ce ne sono voluti 11. Ad ogni modo decisi di lasciare Gabriel per ultimo proprio per distanziare le due pubblicazioni su di lui. Il secondo motivo è che mi ero illuso al tempo che Peter pubblicasse un nuovo album, quindi l’attesa poteva essere utile. Aveva preannunciato il disco già un anno dopo l’uscita di “Up” nel 2002, che però a tutt’oggi, 15 anni dopo, rimane il suo ultimo album in studio. Non ti nascondo infine che c’è stata anche una terza ragione per lasciare a Gabriel l’ultimo volume della serie, ovvero in un certo senso “finire col botto”, visto che il primo era dedicato a Phil Collins. In pratica gli estremi sono anche i personaggi più famosi dell’universo Genesis.

Hai conosciuto e intervistato, oltre che frequentato, tutti e 7 i protagonisti di Genesis Files. Sappiamo che Peter Gabriel non è dei più loquaci ma puoi raccontarci qualche aneddoto o impressione su com’è veramente in privato, qualcosa che non hai messo neanche nel libro?

MG – Posso affermare che la timidezza di Peter è proverbiale, è vero in generale gli inglesi lo sono di più rispetto a noi, e anche Mike e Tony lo sono un po’, ma la sua rimane la più evidente e paradossale, visto anche il suo percorso da protagonista sul palco. Pensiamo alle maschere indossate con i Genesis, anche lì però essendo, appunto, maschere, in qualche modo mascheravano anche la sua timidezza, un certo modo di essere impacciato che si nota nelle interviste e che anche i suoi compagni di gruppo prendevano in giro ricordando che Peter inizia sempre i suoi discorsi con gli intercalare “uhm”, “ehm”. Ne ho avuto prova anche io personalmente le poche volte che l’ho intervistato. Ricordo una delle prime, quando nel 2000 entrò nella sala di una conferenza stampa di fronte a una trentina di giornalisti, sembrava il classico cerbiatto spaurito. Impressione rafforzata poi in un incontro successivo, fortuito, quando mi trovavo insieme a Steve Hackett nel backstage di una serata a Londra dedicata al designer Eddie Pearce. Steve era in attesa di salutare quest’ultimo e casualmente trovammo anche Gabriel nel backstage, in quanto ospite del designer e della serata. La cosa curiosa è che la lunga fila di persone non era lì per Peter ma per Eddie Pearce! Beh anche lì molta timidezza, lo avvicinai facilmente perché era tutto solo, la folla non era lì per lui. Fu comunque una cosa molto tranquilla, qualche domanda senza la formalità delle interviste.

Peter Gabriel è un perfezionista, basti pensare alle voci registrate daccapo su alcuni brani degli Archive box. Eppure sul repertorio Genesis, a parte qualche cover dal vivo, ultimamente anche con Sting, non si è mai dimostrato così generoso col pubblico. Come pensi sia il suo vero rapporto con quel passato? Lo ritiene intoccabile e sacro (al punto di curarne maniacalmente ogni variazione nel tempo) oppure semplicemente lo ritiene un ricordo breve di gioventù?

 MG – Nessuna delle due cose, semplicemente ritengo che lui sia andato avanti nel suo percorso, chiudendo  la porta dei Genesis senza grande interesse a riaprirla. Non avrebbe tante difficoltà con quel repertorio in sé, ma sicuramente l’ha sempre trattato con un po’ di sufficienza. E’ vero anche che nel 2003 si mise in testa di rifare “Supper’s Ready”, ma il suo chitarrista David Rhodes si rifiutò di impararla e fece bene, perché non ci sarebbe mai riuscito. Quindi non si tratta di una chiusura totale, come dimostra anche l’idea abbastanza recente di fare il musical dal vivo di “The Lamb Lies Down On Broadway” con i suoi vecchi compagni, che è rimasta per ora solo una lieve speranza. Io ritengo che Gabriel, a differenza di Phil Collins, per citare i due che hanno avuto più successo come solisti al di fuori dei Genesis, si sia distaccato molto artisticamente dal gruppo madre e rimettersi in quei panni gli potrebbe creare dei grossi problemi. Lui stesso ha fatto un paragone significante: tutti siamo contenti di rivedere dopo 40 anni i nostri vecchi compagni di classe, ma dopo una sera insieme sei felice di tornartene a casa a fare le tue cose.

Tornando ai Genesis dei primi anni e al rapporto tra Gabriel e Banks dagli anni della scuola al divorzio artistico, che idea ti sei fatto conoscendoli diciamo così “da vecchi”? Sono davvero due personalità che più di quegli anni non potevano andare a avanti insieme? 

MG – Dunque intanto c’è stato questo incontro recente tra i due, circa due anni fa, quando Tony è stato premiato come “Prog God” dal magazine inglese Prog, mentre Peter aveva ricevuto lo stesso premio l’anno precedente. E’ stato proprio Gabriel a consegnargli l’award e il siparietto divertente, immortalato in un clip su you tube, rivela subito  che i due ancora oggi si vogliono un gran bene. Un momento rivelatorio non solo dell’humour Peter, infatti un Banks così spiritoso non me lo ricordavo proprio! Lo sappiamo, i due hanno iniziato e hanno fatto la strada più dura insieme, lo stesso Gabriel ha avuto modo di dire che da migliori amici sono diventati peggiori nemici, in senso artistico. La realtà è che si tratta di due personalità molto forti, lo scontro era inevitabile. Lo dico pensando soprattutto a quella di Tony, che nel periodo della loro convivenza in studio e in tour era quello meno malleabile, assolutamente deciso e forte nell’imporre le sue idee al gruppo. A mio avviso se fossero andati avanti insieme per altri anni, mi sento di dire che i due si sarebbero forse riavvicinati quantomeno dal punto di vista umano. Con gli anni Tony si è ammorbidito molto negli anni, ha dovuto farlo per forza quando le redini della band sono passate nelle mani di Phil Collins, personaggio così diverso da Banks, soprattutto nel background. Ed è proprio lì che Tony è diventato uomo e artista più aperto, rinunciando a opporsi a qualsiasi proposta esterna, accettando addirittura la comparsa di una sezione fiati su un paio di canzoni di “Abacab”. Confido quindi sul fatto che se avessero continuato insieme Peter e un Tony così, diciamo più accomodante, avrebbero forse trovato punti d’incontro diversi. Detto ciò, rimane un divario artistico non indifferente tra i due, le strade scelte sono ben differenti.

Intervista di Francesco Gazzara

(Peter Gabriel, Mario Giammetti, Steve Hackett)

Mario Giammetti
Peter Gabriel – Not One Of Us
(Edizioni Segno)
pagine 358
€ 20,00

Dopo essersi occupato delle carriere da solisti di ognuno degli altri membri dei Genesis, Mario Giammetti porta a compimento la sua monumentale collezione di volumi “Genesis Files” con “Not One Of Us”, libro interamente dedicato a Peter Gabriel.
La competenza e precisione di Giammetti nel raccontare personaggi ed eventi della storia del rock è cosa cosa nota agli appassionati di buona musica in Italia. Molti lo hanno letto negli anni, da giornalista, sulle pagine di Ciao 2001, Rockstar, Jam, Classic Rock.
L’obiettivo che Giammetti raggiunge, sia a livello generale con questa collezione che con questo ultimo capitolo della serie, è tra i più ambiziosi che un libro di saggistica possa porsi: “Not One Of Us” è un libro per gli esperti, ma al tempo stesso è un libro per tutti.
I Genesis Files nel loro complesso vanno a costituire un’enciclopedia estremamente dettagliata sul mondo dei Genesis visto dal punto di vista dei singoli musicisti. Dentro “Not One Of Us” chi legge trova riferimenti cronologici precisi e chiari, fatti, date, concerti, scalette. Ma trova anche indicazioni che dalla cronistoria varcano il confine, sottile, con le scelte musicali: indicazioni sulla produzione, testimonianze dei musicisti, il “perché” dietro uno specifico brano e il percorso che ha portato ad immortalarlo nella versione nota al grande pubblico.
A completare tutto questo ci sono i racconti, gli aneddoti, le emozioni. Un filo rosso che parte dai fatti, quelli storici e certi, bianchi o neri, e li colora attraverso le mille sfumature delle persone, gli amici, i colleghi, gli affetti che hanno gravitato attorno al mondo multiforme di Gabriel.
Multiforme non è un termine casuale: Gabriel è un artista poliedrico, dalle cento passioni, dai cento talenti, dalle cento maschere e travestimenti, proprio come quelli che era solito indossare sul palco con i Genesis. Maschere che hanno lasciato il segno non solo come trade mark per la band, ma come snodo fondamentale per l’evoluzione della teatralità nella musica rock.
Dentro questo volume ci sono il Gabriel musicista e il Gabriel uomo, quello del gesto tecnico del fare musica ma anche quello capace di unire arte ed impegno sociale.
E’ un libro, insomma, in cui l’appassionato saprà trovare tutte le nozioni che gli servono (complice anche l’eccellente discografia conclusiva), e chi invece conosce Gabriel meno bene incontrerà un’ottima occasione per appassionarsi alla sua figura.
In entrambi i casi, si conclude la lettura con un regalo finale: la voglia di tornare ad ascoltare i dischi.

Giulia Nuti

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