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Interviste

Anthony Phillips: “Quell’inconfondibile suono di chitarra”

5 dicembre 2019 by pdb in Interviste

A distanza di sette anni dalla sua ultima novità discografia – nel 2012 aveva pubblicato sia il doppio album orchestrale Seventh Heaven in coppia con Andrew Skeet che l’ultimo episodio della lunga serie Private Parts & Pieces – il chitarrista fondatore dei Genesis, Anthony Phillips, è appena tornato con un doppio CD interamente dedicato al sound delle sue chitarre acustiche, a 6, 12 e addirittura 16 corde. Un viaggio di 24 brani che a tratti ci riporta alle atmosfere oniriche e bucoliche di Trespass e a quelle del suo debutto solista The Geese & The Ghost. Strings Of Lights (su label Esoteric Antenna) è però anche un’occasione per presentare al meglio – e in maniera moderna, grazie a registrazioni esemplari – quel sound particolare che ha sempre contraddistinto le composizioni di Phillips. Proprio su questo abbiamo indagato nell’intervista che segue, dove Ant non lesina aneddoti del passato e sviscera anche qualche riflessione personale.

FG – E’ solo un’impressione oppure i due dischi che compongono Strings Of Light presentano un lato più allegro e uno più malinconico? 

AP – Domanda interessante ma in realtà il lavoro di creare una scaletta per tutto il materiale, che ho fatto insieme al fonico e produttore James Collins, non è stato guidato dalla volontà di dividere i due dischi a seconda dell’umore. La mia unica intenzione all’inizio era di partire con la 12 corde e di chiudere l’album con un brano più classicheggiante e lungo. Il resto è stato un lento tentativo di vedere cosa funzionasse meglio, provare in sequenza la fine e l’inizio di ogni singolo brano per capire se la successione era giusta.

 FG – Ci sono un paio di brani nel primo CD che riportano nomi di persone nel titolo. Si tratta di dediche particolari?

 AP – Nel primo caso, “Song For Andy”, indubbiamente si, anche se si tratta di un titolo dato a un brano che avevo già scritto circa tre anni fa. Lo scorso maggio se n’è andato un caro amico, Andy, che conoscevo da tantissimi anni, più o meno da quando avevo lasciato i Genesis.  Una malattia improvvisa se l’è portato via in breve tempo, solo poco prima della scomparsa di mia madre. Insomma un periodo difficile che, nelle operazioni più veloci delle titolazioni dell’album, mi ha convinto a dedicare ad Andy quella canzone. Pensa che lui e sua moglie avevano a casa il primo pianoforte dei Genesis, quello che usavamo a casa mia a Send Barns e sul quale scrivemmo “Vision Of Angels” – che poi andò sull’albumTrespass” nda. Andy era anche lui musicista e spesso amava suonare il mio brano “Let Us All Make Love”. Nel secondo caso invece, “Pilgrimage Of Grace”, non c’è alcun riferimento personale ma il ricordo di un momento tragico nella storia inglese ovvero la rivolta contro Enrico VIII nel 1536-1937 – “Pellegrinaggio di Grazia” in italiano nda – dopo il suo distacco dalla Chiesa di Roma. Una protesta che alla fine il monarca soffocò nel sangue con arresti e impiccagioni. Quindi un brano malinconico ma con la sua dignità, in questo senso memore di un’altra mia composizione che era ispirata a qualcosa di storicamente analogo, ovvero “Oubliette” – dall’album “Field Day” del 2005, nda. Lì si parlava di prigioni sotterranee, come testimonia il titolo francese, di stanze di tortura gotiche, perciò molta malinconia anche in quel caso ma senza il ricordo di una rivolta di popolo come in “Pilgrimage Of Grace”.

FG – Un altro brano molto curioso nel sound e nel titolo è “Mouse Trip”, quasi uno Scherzo di altri tempi?

AP – Si in effetti suona come un leggero divertissement a 6 sei corde ma ti assicuro che suonarlo con la chitarra è stato difficilissimo! Il titolo fa la parodia a una commedia che c’è da molti anni a teatro in Inghilterra, “The Mouse Trap” – “Trappoli Per Topi” di Agatha Chirstie, nda. Ne approfitto anche per rivelarti che in realtà non sono stato soltanto io a titolare i brani di questo disco, mi hanno aiutato molto spesso anche Jon Dann – fedele braccio destro di Ant nella sua discografia, nda – e lo stesso James Collins.

FG – La copertina di Strings Of Light, oltre ad avere un forte connubio col titolo dell’album, ha anche uno stile molto moderno ed essenziale. Da dove viene l’immagine originale?

AP – Si tratta di una foto che ho scattato tempo fa in Cornovaglia e che a mio avviso non era venuta molto bene. Poi la mia compagna mi ha suggerito l’analogia delle luci fotografate con le corde di una chitarra. In realtà mi riferisco alla foto del retro in cui le luci sono ancora più numerose e l’immagine più grande e dettagliata. Ad ogni modo, quando arrivò il momento di dare un titolo al disco io ero ancora convinto di chiamarlo “Rainy Day Postcard”, che era anche il titolo provvisorio del brano che poi chiamai “Still Rain”, la traccia più malinconica del primo CD. Sta di fatto che nessuno dei miei collaboratori era convinto di quel titolo, soprattutto dopo aver visto la foto trattata per la copertina. Quindi “Corde Di Luce” ci è sembrato il titolo più giusto alla fine.

FG – L’ultimo brano dell’album, “Life Story”, nelle note di copertina riporta la dicitura “no overdubs”. Come mai l’hai specificato?

AP – A scanso di equivoci diciamo, non certo per darmi delle arie. Nella parte finale del brano c’è una specie di tremolo continuo che eseguo con la mano destra, la cui velocità fa pensare che non ci sia la possibilità di aggiungere altre note allo stesso tempo sulla chitarra. Invece si sentono alcuni armonici che fanno pensare a una sovraincisione. Ora, siccome in Strings Of Light, a differenza di Field Day che era un interno disco senza alcun overdub, ci sono alcuni ritocchi in multitraccia al fine di completare meglio l’idea compositiva, mi sembrava corretto specificare che nell’ultimo brano non ce ne fosse alcuno. Ti giuro che non è stato semplice suonare quella parte con entrambe le mani in una sola volta ma ripeto, non l’ho fatto per dimostrare alcunché. E’ solo una soddisfazione personale poter eseguire il brano completo in una sola volta!

FG – Sette anni dagli ultimi tuoi dischi di nuove composizioni non sono pochi, è per questo che hai raccolto 24 tracce in un doppio album? E come è stato tutto il processo creativo che parte dalla scrittura e arriva alle registrazioni?

AP – Innanzitutto, mettendo a fuoco l’arco di tempo in cui ho scritto questi brani, devo dire che la maggior parte hanno avuto una gestazione di 5-6 anni. Ma ci sono anche cose molto più antiche, come ad esempio “Winter Lights” e “Shoreline” che risalgono nientemeno ai giorni subito successivi alla mia dipartita dai Genesis. Il processo creativo è stato in un certo senso massacrante. Da un lato ti devi cimentare con i brani più lunghi, che sono stati anche quelli più ardui da registrare. In alcuni casi ho scelto di non seguire la forma classica del ritorno al tema principale, ecco perché ad esempio il secondo brano “Diamond Meadows” passa dalla sezione in minore direttamente alla Coda. Penso sia giusto non seguire troppo la regola in questo caso. Lo so che non è magari un’analogia corretta, ma i libri non hanno una ripresentazione dell’incipit, perché dovrebbe averlo per forza una composizione musicale? Poi ci sono state delle difficoltà oggettive nelle registrazioni. Ad esempio “Grand Tour” è suonata con una chitarra a 16 corde che si scordava velocemente tra una sezione e l’altra nell’esecuzione del brano. Abbiamo quindi scelto di registrarne le sezioni separatamente accordandola ogni volta. Un vero incubo. Tutti questi esempi per spiegare come mai questo disco abbia avuto bisogno del tempo necessario per essere completato, tra difficoltà iniziali di scrittura e struttura musicale fino a quelle fisicamente più estenuanti durante le registrazioni. Infine la selezione e la chiusura definitiva dei brani, un lavoro che senza l’aiuto del fonico James Collins sarebbe durato molto di più. Ti faccio ancora un esempio: è stato proprio lui a suggerirmi di registrare più take possibili senza troppe interruzioni. Ormai oggi è possibile raggiungere una forma musicale perfetta scegliendo tra diverse incisioni dello stesso brano e meno interruzioni ci sono più il “flow” dell’esecuzione arriva dritto al cuore di chi ascolta.

FG – Quanto incidono sulla tua musica i tuoi viaggi in giro per il mondo? Ci sono connessioni specifiche?

AP – In realtà non saprei citarti un singolo brano che ho scritto pensando deliberatamente a un viaggio o un luogo che ho visitato. Ovviamente uno si porta tutto dentro nel momento della scrittura, tutto ciò che vediamo e viviamo entra nel nostro subconscio. Posso però dirti, e il brano “K2” che inclusi nel secondo episodio di Private Partes & Pieces: Back To The Pavilion ne è la prova, che sono sempre stato affascinato dalle grandi montagne. Quel sentimento misto di stupore e paura delle altezze vertiginose può sicuramente aver influito anche su altre mie composizioni più recenti. La tua domanda mi incuriosisce molto, mi fa pensare a Felix Mendelssohn che scrisse l’Ouverture in si minore “Le Ebridi” dopo la sua visita alla grotta di Fingal. Romanticismo puro, certo, ma i casi di luoghi specifici che hanno ispirato composizioni sono moltissimi. Nel mio caso però si tratta di idee che poi prendono forme diverse. Ad esempio a me piace molto osservare il mare in tempesta e sempre “Life Story” nel nuovo album è un brano sicuramente ispirato dal movimento del mare. Ma attenzione, non un mare in burrasca bensì una placida ondulazione, con un paesaggio sicuramente più solare ed estivo. Come vedi nulla è deciso in anticipo e in fondo, come dice il brano “Thinking Is The Best Way To Travel” dei Moody Blues, a volte basta un libro a ispirare un brano senza bisogno di viaggiare fisicamente.

 FG –  C’è un momento nel nuovo disco, durante “Skies Crying”, in cui non riesco a fare a meno di pensare all’inizio di “White Mountain” (su Trespass) dei Genesis. Non si tratta di note precise, forse l’armonia ma soprattutto l’atmosfera. Cosa pensi quando paragonano un tuo brano solista a qualcosa che proviene da quel periodo?

AP – Penso sia una cosa normalissima e non mi crea alcun problema. Molti di noi, musicisti o semplici appassionati di musica, vengono influenzati per il resto della loro vita da ciò che scoprono durante gli ultimi anni da teenager. Nel caso di un compositore come me, mi spingo a dire che probabilmente è sempre in quegli anni che si forma lo stile di scrittura sul quale poi si torna sempre con naturalezza nell’arco della propria carriera. Io ho iniziato a suonare la chitarra a 11 anni, a 13 ho scritto il brano “In Hiding” che poi diventò dei Genesis. Sto parlando di abbozzi ancora non maturi, che poi ho lentamente rifinito a 16 anni insieme a Mike Rutherford con le nostre 12 corde. Ecco diciamo che, pur affinando lo stile negli anni a seguire e proseguendo negli studi musicali anche dopo l’uscita dai Genesis, quelle ore passate con Mike a intonare le nostre chitarre acustiche sono state fondamentali e hanno creato uno stile unico. Perdonami l’esagerazione ma fino ad allora con le 12 corde acustiche nessuno aveva ancora inventato degli intrecci e accordature così particolari. Si, c’erano i Beatles con le elettriche, anche a 12 corde e sitar vari, ma di quel sound provato per ore con Mike, che poi confluì in Trespass e nella mia discografia solista, io vado tuttora fiero. Tornando a come si definisce uno stile, penso che sia vero anche l’inverso del discorso di prima ovvero che se una cosa non ti prende quando hai dai 16 a i 25 anni, poi la puoi studiare, imparare, stimare, apprezzare, ma non ti sarà mai entrata nel cuore come ciò che ti ha preso veramente durante quegli anni. Lo so, il mio è un rapporto emozionale con la musica, non razionale. Ma in fondo anche il grande pubblico è così a mio avviso, l’intellettualismo, molto presente nel mondo della musica classica, non è una roba da grandi numeri. Infine può valere anche il discorso inverso, ovvero l’infatuazione momentanea per qualcosa che poi, negli anni, si rivela soltanto un normale gradimento. A me è successo con “She Loves You” dei Beatles, ne andavo pazzo quando uscì, poi con gli anni è rimasto un brano da stimare, da apprezzarne la portata storica, ma non più dentro il cuore. Come vedi, la musica e la vita possono essere davvero simili!

Francesco Gazzara

(c) Photo credit: Mark Latham

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