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Recensioni

Umbria Jazz Winter 27, Orvieto, 30 dicembre 2019 – 1 gennaio 2020

3 gennaio 2020 by Michele Manzotti in Concerti, Recensioni

www.umbriajazz.com

30 dicembre 2019

Una giornata piena di concerti con il tutto esaurito. A partire da quello della mattina, che tradizionalmente si tiene al museo Emilio Greco. Protagonista il duo formato dai fisarmonicisti Simone Zanchini e Antonello Salis, che si è anche seduto al pianoforte. Una collaborazione che dura da 20 anni ma che a Orvieto ha messo le basi per il disco insieme, che nascerà grazie ai quattro concerti nel cartellone di Uj. Il repertorio è dedicato alle musiche di Ennio Morricone (Per un pugno di dollari, C’era una volta in America, Giù la testa) ma trattate in maniera totalmente diversa dal solito. Si ascoltano echi di Bach, danze sudamericane, John Cage e sonorità free affrontate con una maestria tecnica eccezionale unita a idee di grande originalità.

Al Teatro Mancinelli è invece andato in scena il doppio tributo ai vibrafonisti Milt Jackson e Bobby Hutcherson e ai Beatles. Nel primo set Joel Ross e Warren Wolf hanno omaggiato i loro predecessori traendo classici dal loro catalogo. I brani di Jackson e del Modern Jazz Quartet hanno comunque svettato come fama sugli altri. Django e Bag’s Groove sono stati affrontati con il dovuto rispetto, grazie anche agli altri due componenti del quartetto sul palco, il contrabbassista Joe Sanders e il batterista Greg Hutchison. Ross è più percussionista, mentre Wolf ama evidenziare le sfumature.

C’era molta attesa per John Scofield per l’omaggio ai Beatles insieme al pianista e arrangiatore Gil Goldstein con l’Umbria Jazz Orchestra e l’Orchestra da Camera di Perugia. La tecnica del chitarrista non si discute, c’era solo il dubbio di ascoltare un repertorio notissimo troppo simile all’originale nelle parti orchestrali o nel ritmo. Invece la lunga suite ha presentato brani meno ascoltati nelle riproposte dei Beatles come l’iniziale Happiness is a Warm Gun, Flying, Blue Jay Way, Everybody’s Got Something to Hide, addirittura la Pepperland di George Martin scritta per Yellow Submarine mentre un classico come Help ha perso la sua anima beat, con il ritmo dilatato e la melodia trasformata. Let it Be, Michelle e Something invece potevano tranquillamente essere omesse dato che l’arrangiamento non presentava elementi di grande novità. La lunghezza era sicuramente dovuta al progetto discografico in arrivo. In ogni caso un’operazione dove il jazz entra fino a un certo punto per la specificità del repertorio.

31 dicembre 2019

Sullivan Fortner viene da New Orleans e forse per questo ci saremmo aspettati l’eco di Allen Toussaint e Dr John in un contesto jazzistico, ma lo abbiamo ascoltato solo in parte. Forse perché il giovane pianista era in trio, con due signori collaboratori quali Jay Anderson al contrabbasso e Lewis Nash alla batteria. Inoltre nella Sala Etrusca del Palazzo del Popolo la mattinata in musica vedeva la presenza della ballerina di tip tap Michela Marino Lerman, in pratica un secondo strumento a percussione. Esperimento interessante che ha un po’ messo in secondo piano il pianismo di Fortner, basato su originali e standard.

Uno dei gruppi residenti al Ristorante San Francesco era il quartetto vocale dei New Orleans Mystics, accompagnato da una band. Il gruppo ha presentato un soul molto elegante, ben diverso da quello di marca Stax, ma gradevole e ben costruito nel mix di registri vocali e nell’eleganza dei movimenti.

Altro concerto affollato di pubblico è stato quello del quartetto di Rosario Giuliani con i brani del suo progetto discografico Love in Translation in uscita alla fine di questo mese. Il sassofonista di Terracina, che già avevamo applaudito lo scorso anno, ha legato questo disco al 20° della sua collaborazione con il vibrafonista Joe Locke. La ritmica di questo quartetto era invece affidata al basso elettrico di Dario Deidda e all’esperienza di Roberto Gatto alla batteria. Fra tributi a Marco Tamburini (Tamburo) e Roy Hargrove (Raise Heaven) e standard come Que reste-t-il de nos amours? e Can’t help falling in love, il quartetto ha mostrato un suono di grande fascino con il timbro di Locke in bella evidenza.

1 gennaio 2020

Anche il concerto di Capodanno al Palazzo del Popolo era al completo, con il pubblico che si era messo in fila subito dopo il brindisi per festeggiare il 2020. Un interesse scontato vista la presenza di uno dei protagonisti del jazz internazionale, ovvero Paolo Fresu. Con il musicista sardo sono saliti sul palco i componenti del suo Devil Quartet, Bebo Ferra alla chitarra, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria. Un appuntamento in cui Fresu, dopo aver letto la filastrocca dell’anno nuovo di Gianni Rodari, ha preso in mano le redini della formazione, perfetto primus inter pares. Il Devil Quartet ha proposto brani originali (come Elogio del Discount e Inno alla vita di Fresu e la ballata Giulio Libano di Bagnoli), e riproposto come E se domani, e soprattutto la sigla di Un posto al sole, nata durante la trasmissione Gazebo. Una miscela equilibrata e sapiente tra groove elettrico e una grande vocazione alla melodia (il suono del flicorno di Fresu ha pochi eguali in questo senso) per un ben augurante anno in musica.

Michele Manzotti

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