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MICHAEL BLOOMFIELD
“The altar song (traditional)”
di FABRIZIO BERTI

Michael Bloomfield è stato uno dei più grandi chitarristi blues in senso assoluto. Nel Marzo 1981, quando la notizia della sua morte arrivò in Italia, si chiudeva tragicamente l’ennesimo capitolo della musica americana. La verde stagione del rock da tempo era un ricordo, così la sua scomparsa non fu eclatante come quella di Hendrix e della Joplin. Si trattava in fin dei conti di un altro magnifico perdente che lasciava sogni e ricordi ai bordi di una desolata strada californiana. Comunque, pur nella sua pur breve esistenza Bloomfield si era guadagnato i gradi di musicista di culto con nutrite schiere di ammiratori. A dimostrazione di tanta influenza, qualche tempo dopo un tale di nome Ed Ward gli dedicava un intero libro – “The rise and fall of an american guitar hero” che aveva il gran merito di tracciare con rispettosa memoria un’interessante profilo biografico legato ad un primo tentativo di ordine discografico.
Ne scaturiva il ritratto di un chitarrista dalle eccezionali capacità tecniche in possesso di un feeling innato perdutamente innamorato della musica afroamericana.
Una meteora che pur attraversando velocemente il firmamento musicale ha avuto modo di lasciare tracce indelebili nel cammino del rock anni sessanta e settanta. A ben guardare c’è stato un Bloomfield per tutte le stagioni. Quello degli inizi con la Paul Butterfield Blues Band dove ogni palco era buono per saltarci sopra. Sbiadite istantanee che lo rammentano assiduo frequentatore delle bettole della Southside al fianco dei più bei nomi della Chicago nera. Quello trasgressivo spalla a spalla con Bob Dylan nel famoso voltafaccia elettrico di Newport e nel seminale “Highway 61 revisited”. Quello frenetico restituito dal triennio ‘68-’71 dove un’attività senza sosta lo avvicina al tastierista Al Kooper per firmare “Supersession” una delle cavalcate strumentali più importanti della storia del rock. Come non segnalare il Bloomfield sperimentatore che si lascia ammaliare dai suoni di Beaver & Krause con incursioni nelle colonne sonore - “The Trip” ed improbabili esibizioni al moog, leggi la stranissima registrazione – “Moogie Woogie”. Il Bloomfield musicologo e ricercatore attento, alle dipendenze di Sleepy John Estes, Little Brother Montgomery, Big Joe Williams e Robert Nighthawk.
Fra i momenti di questa incredibile carriera c‘è però un Bloomfield che amo maggiormente.
È quello solitario, introspettivo ed intimista del tardo periodo californiano. Scemate le luci della ribalta, il musicista, minato nel fisico dall’insonnia pressochè permanente, si riconsegna alla dimensione accogliente dei club della San Francisco bay area dove assume il ruolo di maestro da seguire ed ammirare. “Potrebbe suonare ad ore e non ti stancheresti di ascoltarlo” dicono di lui gli amici.
Nella sua sterminata produzione ci sono tre piccoli affreschi di bellezza adamantina a cui mi piace associare la sua nobile arte e il suo amore per la musica:
“Relaxin’ blues: blues for Jimmy Yancey, Sunyland Slim and Otis Spann” toccante interpretazione tratta dal doppio antologico “A retrospective”.
“The altar song (traditional)”, presa da quel monumento di stile che ha per titolo “If you love these blues, play’em as you please”, dove in successione sciorina con facilità un elenco impressionante di musicisti che lo hanno influenzato.
“Your friends” arrivato sparato da “Between the hard place and the ground” con la voce dell’amico Roger Troy a ricordare tempi migliori: quel gigante indimenticabile della chitarra blues.

LUCA LUPOLI
Paragonerei Bloomfield a un artista rinascimentale, sull'impalcatura, tavolozza alla mano, mentre sul muro bianco dà vita a delle figure magiche.
Dietro quella sua capacità di saper far tutto e di farlo con grande maestria, ci stanno una conoscenza profonda del Blues e della musica americana del secolo scorso.
Dietro i suoi assoli, vive l'artista originale che si riconosce all'istante: quegl'affreschi schizzati quasi con noncuranza scoprono un'artigiano assolutamente geniale.

FABIO TREVES
Bisogna dare sempre qualcosa di positivo alla gente. Tutti i grandi mi hanno detto che se sei un grande non hai bisogno di nessun atteggiamento da divo, questo è un insegnamento che viene da tutti i generi.
Persone come Bloomfield, come Muddy Waters, come Zappa, mi hanno fatto capire che arrivare al cuore della gente è la cosa più bella. Io ho compreso che loro esprimendomi questo hanno ringraziato lassù per esserci riusciti.
Pensare a Bloomfield mi emoziona ancora oggi…


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