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Alla scoperta dei tesori del rock’n'blues

28 luglio 2021 by Luca Lupoli in Special

Nel rock and blues, sottogenere dalle diverse sfaccettature, non solo musicali ma anche socio-economiche, la percentuale degli ingredienti varia e può variare anche di molto. Si potrebbe filosofeggiare a lungo sui i pro e i contro, sul prima e sul dopo, di questa forma di Blues. Ammesso e non concesso che possa esser ancora definito come tale. Ma questo articolo ha un obiettivo molto pratico. In un futuro, i mercatini dell’usato, (ri)vedranno probabilmente giorni fausti ed inevitabilmente, i fanatici del vinile si fionderanno su scatoloni esausti e polverosi ma colmi di dischi più o meno nobili. Che comprare a prezzi forse ragionevoli, se uno, totalmente impazzito, volesse farsi una mini discografia vinilica del suddetto sotto genere? Immodestamente, questo articolo ha la presunzione di indicarvi alcuni vecchi titoli che potreste, con una certa dose di fortuna, trovare nei suddetti scatoloni, dando per scontato di avere già il minimo indispensabile: Hendrix, Cream e Led Zeppelin I / II, Ten Years After. Per massimizzare la resa del rock’n’blues ho scelto solo dischi live che risalgono quasi tutti ai primi anni settanta.

Alla morte di Hendrix, l’industria discografica scateno’ una caccia al suo successore. Fuori gioco per i consueti problemi Eric Clapton, troppo inglese Jeff Beck, tra i molti candidati, due americani salirono alla ribalta: Leslie West e Johnny Winter. West, un po’ grassottello, non aveva il physique du rôle. Winter aveva il look giusto: albino, lunghissimi capelli lisci, marsina, stivalacci, spesso e volentieri imbracciava una Fender Thunderbird, chitarra mitica del chitarrista che ci va giù duro. E Winter ci andava giù durissimo: lo dimostra il suo Johnny Winter And Live (CBS 64289, 1971), un capolavoro, dove sforna medleys di rock’n’roll al fulmicotone ma anche Mean Town Blues e It’s your Own Fault dove dimostra un talento da vero Bluesman che poi confermerà in tutta la sua lunga carriera. West è il chitarrista dei Mountain, favoloso gruppo rock americano guidato da Felix Pappalardi, bassista, cantante e autore (morirà ucciso dalla moglie, artista anch’essa, Gail Collins che dipingeva le copertine dei loro dischi). Nel loro The Road goes on (Island Records 19199), la batteria di Corky Laing, che lavorerà a lungo con West, apre Long Red dove íl chitarrista scatena assoli che hanno marcato a fuoco il rock. Infine Hendrix fu un monarca senza successori, Winter fu scartato in quanto Texano, mentre serviva all’industria discografica un personaggio un po’ bohémien, arte sconosciuta in Texas all’epoca.

Spietato tra gli spietati, Joe Walsh era il chitarrista della James Gang, di cui vale cercare Live in Concert (ABC Records), dove un terzetto di mani pesanti suona del Soul Rock, con Stop di Ragavoy e Lost Woman degli Yardbirds, con Walsh che idealmente insegue Jeff Beck. Curioso mélange. Walsh diventera’ poi famoso come membro degl’Eagles. Ecco un album, At Last (Armadillo Records 78-1, 1978), forse piu’ conosciuto per la sua copertina, che un po’ ricorda quelle di Gail Collins, che per la musica ivi contenuta. Eppure the Bugs Henderson Group, un terzetto dal nome del chitarrista cantante Texano pure lui Bugs Henderson, non teme raffronti. Henderson ha il dono del riff secco, ma e’ anche agile negli shuffles, nonostante gli arrangiamenti piuttosto pesanti come d’uso. Altro album mitico, Performance: Rockin the Fillmore (A&M 63506) degli Humble Pie, pietra miliare del Rock and Blues, con dentro veramente tanto Blues ma anche Soul. Steve Marriot, un ex Small Faces, e Peter Frampton sono due musicisti di livello, il secondo accederà allo stardom del rock vendendo in solitario 16 milioni di copie del suo Frampton Comes Live. Chiunque suoni rock, o almeno pensi di farlo, dovrebbe ascoltare Rockin the Fillmore. J. Geils Band, altro gruppo mitico con 3 frontmen: Magic Dick all’armonica, Peter Wolf – una star dello showbiz americano – alla voce e John J. Geils chitarrista leggendario, che potevano sfarzo e disgressioni perche’ accompagnati da un formidabile terzetto, organo, basso, batteria in grado di spalleggiarli sempre. Il loro Live “Full House” (Atlantic SD 7241, !972), un album che non deve mancare in qualsiasi collezione rock, e’ un terremoto il cui epicentro sta in un sudatissimo classico Hookeriano “Serves your right to suffer”.

Iniziamo coi gruppi oltreoceano. I Savoy Brown si sono costruiti un solido seguito di rockettari ma il loro splendore risale ai primordi quando incisero albums di vero British Blues, pietre miliari di quel periodo. Poi una sfilza di dischi tra rock e rock’n’roll, dove la chitarra di Kim Simmonds invecchiera’ dolcemente. Live in Central Park (Relix Records 2014, 1985), una registrazione del 1972 li trova sulla strada del mutamento dal Blues originario al Rock più duro, soffrendo abbondantemente in “Love me Please” con Simmonds e Paul Raymond, un divo dell’Hard Rock in divenire, suonerà con UFO e Micheal Schenker Group, alle tastiere. Con Hip Shake di Slim Harpo anticipano la ricetta degli Z.Z. Top, ma è troppo presto, ci vorrà ancora una decade per i video clips con donne discinte e grosse auto. Anno 1970, Isle of Wight Festival, la risposta inglese a Woodstock. Bussa alle porte della notorietà un terzetto irlandese, ispirato nella formazione dai Cream, chiamato Taste. Alla chitarra un giovanotto con un camicione a quadri che diventerà la sua uniforme, Rory Gallagher, figura indimenticabile del rock. Nel loro Live at the Isle of Wight (Polydor 2383, 1971) domina l’eccitazione musicale di quegli anni, tra assoli di basso e di batteria, e molta chitarra a sviscerare medleys di vecchi blues come Catfish. Pochi si ricorderanno della Climax Chicago Blues Band, una band che potete trovare ancora in giro senza nessuno dei suoi membri più anziani. Le anime del gruppo Pete Haycock e Colin Cooper, abbandonarono a poco a poco la dicitura Chicago e il Blues per lidi piu’ personali e redditizi. FM/Live (Sire Records 1973) sta a metà guado. Registrato a New York e trasmesso dalla stazione FM WNEW, la Climax Blues Band ebbe un grosso successo negli Stati Uniti negli anni settanta, il disco snocciola Blues come Seventh Son e So Many Roads insieme a materiale originale. Come i Taste, la Climax Blues Band da’ una ottima idea dell’atmosfera dei concerti anni 70, lunghi assoli di chitarra, ritmi ossessivi di batteria, nodosi giri di basso, urla del pubblico. Vale la pena anche cercare i loro primi due albums, l’omonimo Climax Chicago Blues Band e il secondo Plays on, sempre su Sire Records. Concludiamo coi Nine Below Zero, gruppo inglese già più contemporaneo, fine anni 70, che ebbe una buona partenza con Live at the Marquee (A & M Records 68515) e che sono sempre attivi, guidati da Dennis Greaves alla chitarra e Mark Feltham all’armonica. Pub-rock, garage Blues, i Nine Below Zero rimaneggiano qualsiasi blues gli passi per la testa in Rock’n’roll con grande impeto. E’ una miscela semplice, di grande effetto ma dalla durata limitata. Il loro quarto album Live at the Venue (Receiver Records 1989) e’ una compilazione dei loro esordi, basica ma genuina.

Luca Lupoli

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